800.000 persone solo a Parigi, 3 milioni e mezzo nel Paese, meno della metà secondo la questura, ma comunque tantissimo. Le cifre delle manifestazioni in Francia degli ultimi giorni restano impressionanti da qualunque punto le si veda. Ma non è stata solo la riforma delle pensioni a spingere la gente in strada.

O meglio, lo è stata ma non solo per l’innalzamento a 64 anni (da noi, 67) ma per ciò che questo significa: chiedere sacrifici ai lavoratori, far pagare alla classe media i conti che devono tornare. Non ai ricchi, non ai grandi patrimoni, non alle grandi compagnie delle big tech ma alla gente comune, che si sente sempre più impoverita, nonostante il proverbiale welfare francese e contratti di lavoro più tutelati e più ricchi dei nostri.

L’insostenibilità della disuguaglianza estrema

La democrazia ha dato una prova importante di sé. La Francia ci ha dimostrato che esiste il popolo mentre il populismo sta altrove, magari proprio tra le èlite sempre più lontane, sempre più perse in un mondo parallelo di privilegi e ricchezza, senza averne tuttavia alcuna consapevolezza o avendone pochissima. Come dimostra il furtivo gesto di Macron che si toglie il costosissimo orologio durante la conferenza stampa all’Eliseo.

Non solo la Francia: in Israele la gente “normale” è scesa in piazza contro la riforma della giustizia, ma con un identico sentimento. Quello di impedire che una élite decida per chi sta sotto, quello di fermare l’arroganza dei pochi contro molti.

Quello che accade, nel mondo “ricco” come nei Paesi più poveri, è un fenomeno simile, sia pure ovviamente nelle diversità dei singoli Paesi e del reddito medio pro capite. Si inizia a mettere in discussione la diseguaglianza divenuta sempre più estrema.

La distanza tra i ricchissimi e i poveri è arrivata a livelli che nessuna società può sostenere. La distanza tra chi comanda e chi è comandato appare sempre più intollerabile. La società, le società stanno cambiando, le persone sono sempre più consapevoli, gli strumenti digitali e i social network favoriscono l’aggregazione, il tam tam della protesta.

Addio individualismo, meglio unirsi

C’entrano, in questa rivolta trasversale, i cambiamenti climaticianch’essi percepiti non solo come sempre più minacciosi ma anche distribuiti in maniera ingiusta: colpiti i poveri, salvi i ricchi, che con i loro jet privati, altro elemento sempre più messo in discussione dall’opinione pubblica, si spostano tranquillamente da un clima all’altro.

C’entra la sensazione che i propri figli non abbiano un futuro,che non ci sia, letteralmente, un futuro. Ma che tutto questo non sia un caso, ma abbia precise responsabilità, come di fatto è: il fatto che i beni comuni siano stati privatizzati, che i più ricchi possano far proprio il capitale naturale, come quello economico, come quello culturale.

Si comincia a lasciare alle spalle, ed è qualcosa di profondamente importante, l’individualismo degli anni ‘80, ‘90, 2000. Si è capito che la corsa privata a essere ciascuno più ricco non vale più,perché le regole sono truccate, perché si corre a vuoto, mentre chi non ha corso per nulla ha già tutto a disposizione.

E allora non resta che, finalmente, allearsi, unirsi, protestare, con forza. La protesta cambia le cose, come si è visto in Israele e come sarà anche in Francia, nonostante la legge sia passata. Perché Macron è probabilmente un politico finito.

Italia, nessuna protesta e salari più bassi d’Europa

Ma la domanda che è circolata nei giorni scorsi sui social network, accompagnata da vignette più o meno ironiche e amare, è quella sul perché in Italia una simile protesta, con gli stessi numeri, non sia all’orizzonte.

Certo c’è stata la piazza della Cgil, certo quella delle famiglie arcobaleno, ma non sono state manifestazioni di massa dove la quantità di persone diventa un popolo imponente e quindi preoccupante, allarmante per il Governo.

Eppure i motivi ci sarebbero: l’Italia è l’unico paese Ocse in cui gli stipendi negli ultimi 20 anni sono diminuiti, restando i più poveri d’Europa o quasi. Le disuguaglianze continuano a crescere, le persone povere sono raddoppiate, il welfare è povero; quello che c’era, il reddito di cittadinanza, eliminato e sostituito con una misera versione.

Nulla funziona in Italia, sia per i ricchi, che per i poveri. Ma i primi possono comprarsi servizi privatamente, come la sanità, i secondi finiscono sulle barelle dei pronto soccorso e spesso ci muoiono.

Il cambiamento climatico ormai sta lasciando segni sui nostri paesaggi così evidenti e drammatici che tutti li vedono. E tutti sono ormai terrorizzati, così dicono i sondaggi. Si dirà che questo Governo rappresenta la maggioranza degli italiani: non è così. Alle ultime elezioni la metà degli italiani non ha votato, questo significa che il Governo di oggi è stato scelto da 1 italiano su 4. E che nel frattempo potrebbe avere cambiato idea.

E allora perché la protesta è assente? Perché le piazze non si riempiono? 

Arte della sopravvivenza, lavoro nero: perché l’Italia tace

Dare una risposta non è facile, siamo nel campo delle ipotesi. Però alcune riflessioni si possono fare.

Anzitutto, fino all’elezione di Schlein abbiamo avuto un centrosinistra senza identità, dai valori confusi, frammentato, inutile ai fine della motivazione delle persone. Al tempo stesso, Schlein è da troppo poco tempo segretaria del Pd, ci vorrà appunto molto, e dipenderà da lei, perché torni a essere la leader di un popolo.

In secondo luogo, anche se gli stipendi sono miseri, gli italiani restano ancora divisi tra di loro, attaccati all’arte della sopravvivenza di cui peraltro sono maestri. È ancora forte la percezione che si resta a galla con escamotage vari, dagli aiuti familiari a, soprattutto (re incontrastato di questo Paese in ogni settore), il lavoro nero.

Da questo punto di vista le statistiche sulla povertà in Italia sono falsate, perché non tengono conto della quantità immensa, appunto, di lavoro nero in Italia. Per contro, le persone più povere, i senza dimora, le famiglie immigrate non protestano, perché chi è troppo povero alla protesta sociale non ci arriva,come spiegano bene quelli che di loro si occupano.

Sempre restando sul tema del lavoro: l’imponente numero di lavoratori precari, che in Francia non trova lo stesso riscontro, frena la piazza. Perché chi ha un contratto a termine, in generale, è più isolato, lontanissimo dai sindacati e dai colleghi. Più difficile trovare convergenze. In questo senso la responsabilità delle organizzazioni del lavoro è enorme.

Altro elemento negativo: la bassa scolarità. Se è vero che nell’immaginario la protesta sociale, vedi il Quarto Stato, è fatta dalle classi umili, è vero in realtà che la cultura favorisce la discesa in piazza. Chi ha più strumenti intellettuali arriva prima a capire i limiti della ricerca individuale, così come i margini di azione possibili e quelli che sono ormai impossibili, a causa di Governi corrotti e incapaci. Il fatto che in Italia ci siano pochissimi laureati e pochi diplomati, dunque, rallenta paradossalmente la protesta.

Infine, un altro aspetto riguarda la nostra emigrazione intellettuale: da noi, quelli che magari altrove sono rimasti e oggi scendono in piazza, sono già partiti. Se ne sono andati e se ne continuano ad andare, più di 1 milione in 10 anni. La protesta italiana è l’emigrazione. 

Quel divario incolmabile tra politica e società

Insomma, in Italia ancora non si è fatto quel salto concettuale necessario dalla ricerca di benessere individuale alla protesta collettiva. Ancora siamo fermi all’idea che in qualche modo il singolo ce la deve fare da solo, con mezzi leciti e meno leciti. Manca, inoltre, come hanno notato alcuni sociologi, l’idea che il conflitto possa modificare le cose, che si lega alla convinzione, sempre più assente nel nostro Paese, che ci sia un legame tra società e politica. Gli italiani più di altri popoli percepiscono solo la voragine tra questi 2 ambiti e invece del conflitto utilizzano la modalità del disprezzo, dell’astensionismo. Non credono che le cose possano cambiare.

Ciò nonostante ci sono segni di cambiamento anche in Italia. Le prime piazze, anche se ancora minoritarie. La risposta potente dell’opinione pubblica scioccata alla tragedia di Cutro, che ha costretto il Governo a dare l’ordine di salvare tutti, perché un’altra simile tragedia non sarebbe tollerabile.

E su altri fronti il Governo ha dovuto fare retromarcia, grazie a una stampa tornata, con la fine del Governo Draghi, a fare il suo mestiere, anche grazie ai social network, sempre più espressione di un’opinione pubblica preparata e indignata. Ma da Parigi siamo ancora lontanissimi. 

Speriamo non troppo a lungo perché solo ritornando popolo, e lasciando il populismo ai peggiori, è possibile non tanto far cadere un Governo, quanto ridare vita alla democrazia. E quindi riportare il cambiamento nell’alveo delle cose possibili. Tornare a crederci e agire perché diventi davvero realtà.

Pubblicato su LaSvolta.it, 3 aprile 2023

Foto di StockSnap da Pixabay

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