Le parole per il dopo/3: Preghiera

Piccolo vocabolario etico perché tutto tutto ciò che è successo non riaccada

Ho vissuto un’infanzia religiosissima, soffocata da regole morali sadiche e insensate, che mi hanno tolto ogni libertà interiore e ogni piacere di vita. Ne sono uscita faticosamente, con decenni di psicoanalisi che ancora non si conclude, perché le ferite del passato certe volte non si rimarginano più.

Eppure la crisi ambientale, e la coscienza di un collasso ecologico possibile e incombente, mi ha riportato su tracce antiche, anche se diverse da quelle infantili. Di fronte al Male dilagante, di fronte alla distruzione del mondo, unico posto nel quale possiamo vivere, ho avvertito che tutta la scienza del mondo non bastava a consolarmi. O, meglio, che la scienza, una delle forme di conoscenza più alta, quella che dice la verità sullo stato del nostro organismo e del pianeta, non poteva andare da sola.

Può sembrare assurdo accostare ragione e religione (o preghiera) insieme, eppure la sensazione è che esse possano essere vere entrambe. Perché, semplicemente giocano due partite diverse, due ordini di verità differenti. La crisi climatica, e poi quella del virus, è stata per me il momento in cui quello che mai avrei creduto di pensare – sono sempre stata per l’aut aut, o l’uno o l’altro – mi è apparso evidente in maniera lampante: potevamo credere in entrambe. Durante l’emergenza un titolo mi è rimasto impresso. Quello di Avvenire: “Armati di scienza e fede”. Anni fa mi avrebbe fatto sorridere. Oggi no.

Ma in quale religione credere? Quale preghiera recitare? Per la verità, non importa. Ciò che importa è sentirsi “legati” a una comunità, a un popolo, come dice la parola. E allora forse la religione, e la preghiera, “giusta” è semplicemente quella del luogo in cui si è nati. Le radici.  E non serve per essere religiosi o per pregare andare a messa, non serve prendere per forza i sacramenti. Serve soprattutto sentirsi parte di una comunità spirituale. Che soffre, che anela, che chiede aiuto. Che piange, che prega, che spera.

Papa Francesco ha incarnato tutto questo in maniera esemplare, ed è stata guida morale per tutti, cattolici, atei, probabilmente anche buddisti o credenti di altre religioni. La religione ci lega a una cultura, anche. Forse per questo non sono mai riuscita a diventare buddista, nonostante condivida tantissimo di questa filosofia, nonostante ami la loro meditazione, così efficace nei momenti di crisi. Ma non era quella legata alla mia cultura. Al mio immaginario. Alle tele dei nostri pittori. Alle nostre chiese. 

Continuo a credere che il cristianesimo sia una religione contraddittoria, inverosimile, per certi versi sadica. L’immagine del Cristo morto è spaventosa. Spiegarla a un bambino quasi impossibile. Ma non importa questo. Se è un mezzo per pregare insieme, per sentire che Noi è più dell’io, per avvertire pace nello strazio, per vedere bellezza nell’orrore, tanto basta. Dio è uno solo, tanti i modi per pregarlo. 

Dopo la crisi non dobbiamo diventare meno religiosi, il contrario. Non dobbiamo pregare di meno, il contrario. Recitare insieme un rosario, un mantra, che dà senso al mondo, anche quello segnato dalla distruzione, sociale e ambientale. E di fronte alla fine della vita, è l’unica cosa che ci consola, oltre a renderci meno onnipotenti. Non è moralismo, non è dogmatismo. La preghiera non impedisce la vita, il piacere, nulla di questo. Se è entrata per caso nelle nostre vite con il virus, non facciamola uscire. 

#religione #fede 

(30 marzo 2020).