Le affermazioni sono iniziate ben prima dell’avvio dei lavori: Cop27 è inutile, parte già fallita, è il trionfo delle lobby, non si troverà un accordo. Per Greta Thunberg la conferenza è mero greenwashing, tanto che l’attivista, come tanti altri, deciderà di non partecipare – anche se c’entrano motivi diversi e molto personali – anche per la giusta questione dei diritti umani non tutelati.

Ad accompagnare questo scetticismo preventivo generale sono poi i vari rapporti presentati da ong e associazioni proprio in vista di Cop27. E che raccontano di un mondo in balia dell’energia fossile con emissioni crescenti, dove il potere di petrolio e gas cresce. Su tutto, poi, le sacrosante affermazioni del segretario dell’Onu, da sempre “vox clamantis in deserto”, che senza mezzi termini dice che il mondo sta andando dritto verso l’inferno climatico.

Crisi climatica, perché un reazione psicologica coerente è ardua

Come giornalista ma anche come semplice persona umana in questi giorni mi sono interrogata su come prendere posizione, anche emotiva, rispetto questa quantità insopportabile di apocalisse che i media ci hanno trasmesso negli ultimi mesi. D’altronde, non vale solo alla vigilia della Conferenza sul clima ma sempre: da un lato, abbiamo report e affermazioni di scienziati che riducono a un filo, se non proprio stracciano, la nostra speranza di poter sopravvivere nel mondo nei prossimi decenni; dall’altro, tutti più o meno continuano a comportarsi come se nulla fosse, spesso nel biasimo di chi invece il mondo vorrebbe davvero salvarlo.

Ma mettiamoci nei panni di una persona normale, onesta, che lavora e fa una vita standard. Come dovrebbe reagire a quanto gli viene comunicato? Cosa dovrebbe pensare dopo aver letto i nostri giornali, che per anni hanno dimenticato la crisi climatica, salvo invece oggi pubblicare pezzi terrificanti, raramente accompagnati dalla spiegazione approfondita e concreta di quello che si dovrebbe fare ma, anche, dal racconto di quello che già si sta facendo?

La verità è che il modo in cui ci viene comunicata la crisi climatica ci pone in una situazione psicologica impossibile. Questo in parte è dovuto al fatto che, comunicazioni a parte, è la realtà in cui siamo a essere tragica e al tempo stesso contraddittoria: facciamo vite che distruggono l’ambiente e noi stessi ma è difficile cambiarle, visto che il sistema non cambia e in un certo senso letteralmente ci intrappola. E onestamente io sono tra quelle che crede che i singoli non salveranno il mondo, né possono fare granché a parte mangiare meno proteine animali, avere veicoli elettrici o usare gli autobus, vestire per lo più usato o con tessuti sostenibili.

Dalla difesa dell’indifferenza all’angoscia dell’aderenza ai fatti

Tuttavia, una comunicazione schizofrenica, incoerente e sbagliata di ciò che sta accadendo se possibile peggiora le cose. E così noi oggi sappiamo di dover morire e anche presto e male, ma al tempo stesso non sappiamo cosa dobbiamo fare con questa affermazione né cosa potrebbe realmente invertire questa rotta. Così adottiamo le reazioni più disparate.

La prima, la forma di difesa più normale anche se più coerente, è cercare di non pensare troppo alla catastrofe, o non pensarci affatto, e continuare a vivere una vita normale. La seconda, molto più coerente rispetto a ciò che sta accadendo, è angosciarsi invece moltissimo,talmente tanto da finire spesso in un cul de sacemotivo e pratico, che alla fine porta a un purtroppo inutile consumo di energie emotive. La terza è provare rabbia senza fine verso chi sta distruggendo il mondo: anche questa è una reazione coerente con la tragedia, ma se la rabbia resta senza sbocco o scopo finisce per distruggere chi la prova. Quando diventa azione pratica, invece, può dare molti frutti: che sia partecipare a un’azione di pulizia collettiva di un luogo della città, che far parte di una ong e associazione, che arrivare a entrare nei gruppi protesta che bloccano le città.

Tuttavia, una delle cose che più mi ha colpito intervistando i ragazzi di Ultima generazione oExtinction Rebellion – e che mi ha non poco intristito – è che molti hanno lasciato gli studi.Perché, dicono, di fronte a questo scenario è del tutto inutile studiare.

Chi ha ragione? Meglio essere emotivamente coerenti con i fatti, oppure non esserlo ma salvarsi da emozioni devastanti? Meglio stare vicino alla verità stando male, o vivere sollevati nella finzione? Partecipare a un’attività o a una protesta è forse la risposta più fruttuosa, sia per cambiare la realtà che per stare meglio. Ma non è sempre alla portata di tutti, anche se è possibile che in futuro, quando le cose peggioreranno, saremo tutti attivisti.

Le buone notizie non dovrebbero mai essere a parte

La verità è che, credo, non esista un atteggiamento psicologico “corretto” e unico, al di là della banale constatazione che tutte le persone sono diverse. In realtà sopravviviamo proprio grazie all’oscillazione tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza, il tentativo di fare qualcosa di concreto e il dimenticarsi dell’impegno per un po’, cercando di vivere al meglio. Procediamo senza una strada emotiva chiara, ma purtroppo avercela è quasi impossibile.

Cosa potrebbe aiutarci in questo oscillare tra dimenticanza e ansia senza fine? Non lo ripeterò mai abbastanza, ma credo che la comunicazione sia sempre l’imputata maggiore. Anzitutto, perché getta sulle persone il dramma, senza poi occuparsi di risolverlo, incalzando magari quei politici che potrebbero cambiare le cose e quelle aziende che sono le principali indiziate e che talvolta, sic, sono le stesse finanziatrici dei giornali. Ma oltre a questo c’è un altro aspetto fondamentale.

Personalmente, avrei evitato di dare troppo spazio a chi dava Cop27 come fallita in partenza. Non si tratta di non dare le notizie, ma di non bruciare subito un minimo di speranza e di interesse, anche. Anche Cop26 fu dichiarata un fallimento, tuttavia dei passi avanti furono fatti ma quasi nessuno ne parlò. Secondo, è giusto dare spazio a report che raccontino del peso delle lobby e della loro forza sconfinata, ma se continuiamo a raccontare solo il lato negativo del mondo, la gente finirà per perdere ogni interesse. Finirà per non leggere, per non voler sapere, aggravando la situazione. Lo penso da sempre: non si tratta di fare il giornalino delle buone notizie, ma di mettere quelle notizie insieme a quelle cattive. Anzitutto, per raccontare meglio il mondo che non è solo negatività. Ma anche, e forse soprattutto, per rendere ancora più credibili le notizie cattive. Se tutto invece è solo male, perché dovremmo provare a cambiare il mondo, visto il sicuro fallimento?

Love and Hate, perché nella storia sono sempre intrecciati

Purtroppo oggi, come noto, la situazione in cui siamo è davvero gravissima e questo non può essere nascosto. Ma ripeterlo ogni giorno senza nessun altro tipo di racconto – oltre, ça

va sans dire, senza fare un autentico lavoro di watchdog delle lobby – sta portando risultati? Non mi pare. Le persone sono angosciate, e più l’angoscia cresce più i potenti meccanismi di difesa si fanno spazio. Anche nel peggior momento, e anche senza mai perdere di vista la drammaticità e la conflittualità della realtà, occorre più che mai offrire alle persone una racconto del reale che non sia monocolore.

Mi dette questa intuizione una meravigliosa installazione che vidi 2 anni fa nel Museo di Storia militare di Dresda, in Germania. Sopra un muro lampeggiavano in movimento macchie di parole. Ovvero le parole erano solo due, “Love” and “Hate” e formavano isole in movimento, si sovrapponevano, si staccavano, spostandosi appunto di continuo, cangianti. Quella era la rappresentazione della storia umana, dove bene e male sono sempre intrecciati e il predominio dell’odio (o dell’amore) è sempre momentaneo e comunque mai distaccato chiaramente dal suo opposto.

Lo ripeto ancora: tutto ciò non vuol dire sollevare le persone con notiziole felici o con una speranza senza contenuto (la speranza, dice Greta Thunberg, è una pratica che va costruita e mai affermazione fu più vera). Vuole invece dire creare chiaroscuri, affinché si vedano meglio anche gli scuri. Affinché possiamo forse capire meglio da che parte metterci, come reagire. La paralisi emotiva che viviamo, dovuta sia alla drammaticità del tema, ovviamente, sia al martellamento di report catastrofici malamente raccontati dai giornali, ci rende infelici, bloccati e al tempo stesso incapaci di cambiare.

È tardi? Sì. Dunque non abbiamo tempo per cambiare il racconto di ciò che accade? Forse. Ma se vogliamo che le persone agiscano meglio e davvero, dobbiamo loro, e a noi stessi, un dipinto più fedele. Gridare che siamo già morti non mi pare, in qualsiasi tipo di scenario, la migliore delle soluzioni.

Novembre 2022, pubblicata su La Svolta.it

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