“Usate foto spettacolari, scartate quelle di bassa qualità, fate video. Le persone dovranno esclamare ‘wow’!  E scegliete titoli accattivanti: niente ‘Ci occorrono soldi’, ma ‘La Battaglia di Giulia contro il Cancro”. Incitano a una narrazione emozionante della propria malattia, per aumentare le possibilità di successo: sono le piattaforme di crowdfunding per scopi sanitari – da GoFundme a YouCaring o GiveForward – che negli ultimi anni sono esplose, con milioni di utenti e centinaia di migliaia di campagne. Si può chiedere aiuto un po’ per tutto: cure per patologie di ogni tipo (ma niente aborto o eutanasia), ma anche aiuti per infertilità, cambio di sesso, oppure per pagare un funerale, il college, o aiutare un genitore vedovo. Ultimi casi in Italia sono stati quelli del medico scomparso Lorenzo Farinelli – oltre 600.000 euro raccolti in pochi giorni – e del disegnatore Emilio Marco Catellani, che lanciato una campagna,donando le sue tavole di fumetti ai sostenitori, con l’obiettivo di pagare la salata retta della struttura di ricovero della madre. 

Nel paese dove milioni di persone sono senza assicurazione, e cioè gli Stati Uniti, il crowfunding per le cure sta aiutando addirittura a limitare le bancarotte delle famiglie. E anche in Italia, dove ancora non è sviluppato come altrove, potrebbe forse aiutare quel 6,5% della popolazione che non si cura per via dei costi eccessivi. E però questa nuova forma di stato sociale, che rimpiazza le vecchie associazioni di mutuo soccorso con comunità virtuali, non è senza rischi. Vero, la rete ha una grande capacità di autoregolamentazione e nelle campagne bisogna portare ‘prove’, ma si può incappare in truffe. Non solo: c’è il rischio anche, come ha mostrato una recente ricerca pubblicata su “Lancet Oncology” e firmata da due ricercatori dell’Università di Alberta, di andare a finanziare terapie alternative e senza fondamento scientifico (vedi trattamenti anticancro basati su omeopatia, integratori, rimedi erboristici). Il vero problema, però, è un altro, come ha sottolineato la giornalista Anne Helen Peterson in un illuminante articolo sui rischi del crowdfunding pubblicato sulla rivista “BuzzFeed”. Per avere successo, la malattia non basta, ci vuole la capacità di narrarla, raccontando e documentando con post e foto commoventi – mani intrecciate, sorrisi, giocattoli – la lotta per la sopravvivenza. Il rischio è che vincano, dunque, i casi più sensazionalistici, oppure le storie che hanno avuto la fortuna di essere riportate dai media o condivise da personaggi famosi. Da alcune ricerche è emerso, ad esempio, che  sono favorite le persone afflitte da una malattia che appare come una disgrazia casuale, mentre è svantaggiato chi soffre di tossicodipendenza o problemi mentali, perché la gente tende a pensare, moralisticamente, che in fondo sia colpa loro. Sfavorite anche le malattie rare, magari gravissime, ma in cui la gente si identifica meno. Dal crowdfunding vero e proprio invece restano poi del tutto esclusi immigrati, anziani soli, coloro che non parlano bene la lingua o che, soprattutto, non hanno competenze digitali. Persone magari brutte, poco cute, incapaci di smanettare e che potrebbero essere raggiunte meglio da associazioni che però con il crowdfunding (che favorisce la disintermediazione), vengono in qualche modo aggirate. Insomma: benvenuto il crowdfunding sanitario, che racconta anche di quanto siano grandi i bisogni delle persone e la loro disperazione. Proibito pensarlo, però, come il sostituto di un welfare che manca. Perché di questa mancanza, appunto, non è certo la soluzione. Casomai il sintomo. 

Il fatto quotidiano, Marzo 2019

Foto di Miguel A. Padrinan

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