“Lo sa che la prima professionista sanitaria non medico in Italia a morire di coronavirus è stata un’ostetrica?  E che ad oggi abbiamo due ostetriche morte e due in rianimazione, su un totale di neanche 22.000 professioniste? Eppure il governo nel decreto “Cura Italia” ci ha dimenticato, non ci è stato riconosciuto neanche il bonus baby sitter maggiorato, come altri operatori sanitari”. Nadia Rovelli è la Presidente del Collegio interprovinciale delle Ostetriche di Milano, Bergamo, Cremona, Lodi, Monza Brianza, l’area più colpita dal covid-19. In occasione della Giornata Mondiale dell’Ostetrica, oggi 5 maggio, racconta al Fattoquotidiano.it la situazione per certi versi drammatica in cui versano le ostetriche italiane. Non solo durante il virus, ma anche prima, “il covid-19 è stato come un vaso di Pandora, ha fatto emergere le condizioni critiche preesistenti”, spiega. “Le donne si sono trovate spiazzate, senza riferimenti territoriali, con i consultori chiusi, costrette ad andare in ospedale. Ma anche prima del virus l’accesso ai consultori è minimo e l’assistenza alle donne in gravidanze e alle partorienti disomogenea e carente”.

Poche e dirette da altri

Nel mondo dell’ostetricia, il problema di fondo è soprattutto il contrasto tra le normative e la realtà. Da un lato, infatti, ci sono le delibere emanate a livello regionale – come la 268-2018 della Regione Lombardia –, gli atti di indirizzo del Comitato percorso nascita nazionale (Ministero della salute), le linee guida in merito alla gravidanza fisiologica del Ministero e dell’Istituto Superiore di Sanità, infine le raccomandazioni dell’Oms; dall’altro, appunto, ciò che invece accade sul territorio nazionale, dove  dati del rapporto CeDAP (Certificato di Assistenza al Parto, Ministero della Salute) indicano che esiste una totale disomogeneità a livello regionale – ad esempio nel numero dei parti cesarei – a dimostrazione che le best practices sono ben lungi dall’essere accolte. Ma molti problemi risiedono proprio nella struttura organizzativa e nel mancato rispetto del ruolo delle ostetriche che, e questo è un problema di fondo, sono sempre dirette da altri professionisti non dell’ambiente ostetrico, in contrasto alla legge – n. 251/2000 relative alle professioni sanitarie – secondo cui il dirigente deve essere dello stesso profilo dei professionisti che dirige. “Siamo di fronte a un paradosso”, spiega Rovelli. “In Lombardia non abbiamo neanche un’ostetrica dirigente, pochissime altrove, eppure sono centinaia le ostetriche che hanno preso la laurea specialistica, laurea magistrale in scienze ostetriche e ginecologiche, che abilita a sviluppare quella carriera professionale”. 

Eterodirette, in qualche modo, ma anche – soprattutto – poche. Nelle sale travaglio e parto le donne avrebbero diritto ad un’ostetrica dedicata, il parto è un evento a rischio emergenza, eppure questa raccomandazione scientifica non viene rispettata. “Possiamo avere anche un’ostetrica per venti partorienti, un rapporto che non esiste in un nessun altro reparto. L’organico è sottodimensionato, e l’estate chi va in ferie viene sostituita da ostetriche con contratti interinali”. Le ostetriche possono praticare l’attività libero professionale all’interno dell’ospedale, ma la percentuale che prendono rispetto alla cifra pagata dalla donna all’ospedale è molto bassa e comunque il problema del numero resta.

Quel diritto all’ostetrica che viene calpestato

L’altra raccomandazione del Comitato percorso nascita nazionale che è ancora disattesa è la suddivisione dei percorsi assistenziali, all’interno della stessa azienda ospedaliera, tra donne con parto fisiologico e donne che presentano dei rischi. Alcuni ospedali, come quello di Brescia, hanno appunto creato quella che si chiama unità funzionale a gestione ostetrica in altro piano, altri hanno costruito questa unità  in strutture separate, ma si tratta ancora di eccezioni, in quasi tutto il paese il percorso è unico. 

Ma il problema non esiste solo durante il ricovero. Quello che le ostetriche rivendicano da tempo è che si rispetti anche il diritto della donna, riconosciuto in Lombardia sempre dalla delibera 269, di avere un’assistenza addirittura prec-oncezionale, poi durante la gravidanza e soprattutto dopo il parto fino a otto settimane. “Oggi sappiamo che la vera prevenzione si fa prima della gravidanza, principalmente assumendo acido folico che serve nelle prime settimane, quando l’embrione si forma, non a due mesi quando i giochi sono fatti. Eppure dai dati che raccogliamo vediamo che solo il 30 per cento delle donne assume questo principio attivo fondamentale e pure economico, che evita malformazioni, il che significa che il 70% delle donne non accede ad alcun counseling ostetrico qualificato, al quale avrebbe diritto, ad esempio nei consultori. Poche donne lo sanno, alcune mi dicono che vanno in consultorio chiedendo l’ostetrica cui avrebbero diritto e viene loro risposto che non c’è. A quel punto bisognerebbe scrivere, far sentire la propria voce”.

Spostare infermieri, assumere ostetriche

E dire che le cose da fare per risolvere alcuni problemi sarebbero poche e chiare, come è emerso durante l’emergenza coronavirus. “Nelle sale travaglio e parto, come nei nidi, lavorano tantissime figure non specializzate, infermiere per lo più”, conclude Revelli. “Abbiamo calcolato che ci sono circa 500 infermiere attive in reparti che potrebbero essere sostituite da ostetriche, per garantire alle donne un’assistenza di qualità. Basterebbe dunque assumerle, come ha fatto l’ospedale di Seriate che nel giro di pochi giorni ne ha assunte quattro. Abbiamo 5.000 ostetriche disoccupate, quasi una su quattro, eppure se si adottasse un modello organizzativo diverso – con le donne prese in carica da noi fin dall’inizio e con figure specializzate nei reparti dove si nasce – tutte potrebbero lavorare. Le donne sarebbero assistite, allatterebbero di più, sarebbero meno stressate e a rischio depressione. Un beneficio per tutti”. 

Non va dimenticata, infine, la situazione delle libere professioniste, che accompagnano la donna durante la gravidanza e che la assistono al parto in ospedale o, spesso, a domicilio.  Queste professioniste che ci sia un’equiparazione economica tra parto in ospedale e parto a domicilio, “non è giusto”, dice Ivana Arena, romana, “che una donna debba pagarselo, invece bisognerebbe andare verso l’equiparazione che oggi c’è solo in alcune regioni”. “Vorremmo anche”, continua Arena, “che le donne smettano di doversi nascondere o di essere additate come folli, tanti studi indicano che il parto in casa è assolutamente sicuro. Infine vorremmo anche noi, e su questo convergiamo con le ostetriche ospedaliere, che ogni donna avesse un’ostetrica al suo fianco per tutto il percorso e soprattutto a casa per i primi quindici giorni, un momento cruciale perché l’allattamento riesca e la donna non si ammali”. Tra precarietà e tasse, però, queste libere professioniste vivono spesso sulla soglia della sopravvivenza.  “Io ci ho messo dieci anni di professione per riuscire a guadagnare abbastanza per poter pagare quello che ci chiedono in tasse e contributi, solo di Inps sono 3000 euro all’anno, per chi inizia è durissima e ormai sempre di più le ostetriche aprono la partita Iva, visto che non ci sono assunzioni. E poi l’altro assurdo è che siamo assimilate alla casse commercianti,  senza alcun riconoscimento della nostra specificità professionale”, conclude Arena.  

Aprile 2020, Ilfattoquotidiano.it

Foto Anthony da Pexels per Canva

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