12.000 aerei, 7000 navi, 156.000 soldati, 2,6 milioni di armi leggere, decine di migliaia tra carri armati e veicoli, 17 milioni di mappe, centinaia di manichini fabbricati per sviare i tedeschi. I numeri dello sbarco in Normandia, l’azione che liberò il continente dall’occupazione nazista, il 6 giugno del 1944, sono impressionanti. Il motivo per cui tutto questo fu possibile è semplicemente, uno: l’Europa e l’America erano certi che Hitler avrebbe distrutto il mondo. Per questo stesso motivo, i cittadini dei vari continenti accettarono senza nessun lamento restrizioni come tenere spente le luci di notte o il razionamento alimentare. Il governo americano nel 1942 lanciò la campagna “condividi la carne”, così come furono affissi poster per favorire l’uso della macchina che dichiaravano: “Quando viaggi da solo viaggi con Hitler!”. Ebbene: settant’anni dopo, il mondo si trova di fronte a un’identica minaccia di distruzione, spiegata in tutti i suoi dettagli da centinaia di scienziati oltre che dispiegata di fronte ai nostri occhi – innalzamento dei mari, piogge sempre più violente, gravissime siccità, diminuzione dell’acqua, scomparsa di foreste e di specie animali – eppure non si fa (quasi) nulla. Né il nostro stile di vita è cambiato. A spiegare il perché è il nuovo, acuto, romanzo dello scrittore Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena(Guanda). E anche qui il motivo è semplice: non crediamo che moriremo. Sappiamo, a livello concettuale, di essere in pericolo, ma non a livello emotivo, viscerale. La verità, scrive Safran Foer (che ricorda la differenza tra chi, come sua nonna, ebrea polacca, fuggì dal villaggio dove erano in arrivo in nazisti e chi restò e fu sterminato), è che la crisi climatica è una storia difficile da raccontare. Non affascina, “è priva di momenti emblematici e figure iconiche”. Paradossalmente, quella climatica è una crisi dell’immaginazione, “una crisi della capacità di credere”. Non possiamo essere realmente allarmati della crisi ambientale finché non riconosciamo che ha la capacità di uccidere noi e i nostri figli, quei figli che magari proteggiamo spasmodicamente da pericoli minori. Purtroppo, però, “accettare la verità solo sul piano concettuale non ci basterà, perché il nostro sistema di allarme non è fatto per minacce concettuali”. In breve, perché le persone si mobilitino, il riscaldamento globale deve diventare una questione emotiva. A quel punto il cambiamento diverrebbe immediato e globale, come una grande “ola” globale e si accetterebbe senza fiatare – il tema che più sta a cuore a Foer, già dal libro Se niente Importa– di ridurre drasticamente la carne e i latticini, una delle cause principali delle emissioni di Co2. D’altronde, che giudizio daremmo di uno che, mentre si compie l’enorme sforzo di salvare milioni di vite, considerasse un sacrificio troppo grande evitare il bacon a colazione? Ecco perché la vera sfida, ci ricorda il libro, è questa: crederci. E non solo di testa. Perché “è la nostra mancanza di emozioni che sta distruggendo il pianeta”.  

(Dal Fatto Quotidiano del 9/11/2019)

Foto di Artem Podrez

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