L’afonia di Dora, nota paziente freudiana? Oggi sarebbe probabilmente imputabile allo stress. Termometro del nostro benessere o malessere, il sostantivo, che in inglese significa “spinta, pressione”, è abusato più che mai  (“Sono stressata”, “Non stressarmi”, “Che stress”). E ha finito per invadere la nostra quotidianità, perché tutto è potenzialmente stressante, il lavoro, la famiglia, la vita di coppia, la solitudine, i figli, la disoccupazione e e persino l’appartenenza a una minoranza (minority stress). Contro questo uso-abuso si scagliano oggi due note psicoanaliste, che  difendono un linguaggio morale più articolato e si oppongono all’archiviazione, a causa dello stress, di parole più appropriate e suggestive, come “collera”, “irritazione”, “avvilimento”, “paura”, “incapacità”, “noia”, “agitazione”. Lo stress “si mangia ogni sfumatura del variopinto lessico dell’emotività”, scrivono Simona Argentieri e Nicoletta Gosio nell’affilato saggio Stress e altri equivoci (Einaudi editore) e al tempo spesso “arresta il discorso sulla concatenazione degli eventi esterni e interni in un corto circuito di causa effetto immediato e sbrigativo”. Aspecifico e indeterminato, lo “stress” – che ha preso il posto del vecchio “esaurimento nervoso” –è infatti una “realtà pigliatutto che mescola con abilità il dentro e il fuori”, tanto che il vocabolo è usato per indicare sia lo stimolo che la risposta (invece che l’interazione tra due poli). In altre parole, le letture focalizzate sui sintomi da stress non fanno chiarezza tra difficoltà del singolo e il malfunzionamento del sistema. Da un lato, “mortificano la persona sul piano psicologico”, incoraggiando l’idea che di fronte alla perdita del lavoro, ad esempio, il rimedio sia da cercare non a livello sociale ma in una pillola. Ecco che allora parlare di stress può fungere da diversivo rispetto a questioni di ben altre portata: organizzative, ideologiche, sociopolitiche, istituzionali, etiche e legislative. Dall’altro lato definirsi stressati può essere invece “un modo per non fare i conti con fragilità e sofferenze interiori”, spostando all’esterno cause e rimedi e facendo confusione su questi ultimi, che vanno sempre dall’uso di psicofarmaci ai sempre più diffusi antistress di promozione e di salute. Così siamo più deboli e incapaci di fare appello alle nostre risorse trasformative, mentre veniamo sedotti da prodotti antistress, dalle pubblicità di materassi agli alimenti, dalle calze ai deodoranti, dai centri spa a  tisane e integratori, “nella continua ricerca di un precario equilibrio tra eccitazione e sedazione”. Collegate alla parola stress, c’è poi un corollario di parole altrettanto abusate: il mobbing – il cui danno psicofisico è individuato nello stress – e che trasforma un cittadino protagonista di diritti in un malato psichiatrico; la sindrome da burnout, che tramuta motivazioni e attese professionali in malattia, riducendo un problema condiviso a uno individuale; i life stress event, come catastrofi ambientali, crolli economici, dispiaceri sentimentali, malattie, dove, notano le autrici, “si confondono fragilità individuali e sfortune sociali”, arrivando a considerare un terremoto simile a una perdita affettiva. Ci si dimentica così un principio fondamentale della psicoanalisi e cioè che la risposta agli stress event così come agli happy event è individuale e dipende dalla tortuosità dei tempi dell’inconscio legati a infanzie profondamente differenziate. Lo stesso vale per l’utilizzo della parola trauma (alluvioni, incidenti, ma anche abusi): quando una risposta fisiologica si trasforma in patologica? Ciò che occorre non è una classifica della oggettiva gravità dei traumi ma l’incontro tra l’evento e l’individuo, con la sua personalità, il suo carattere, il suo contesto affettivo e sociale. Ancora, viviamo nell’abuso del termine psicosomatico. Tachicardie, asma, coliti, cistiti, vertigini vengono vagamente associati a generiche sottostanti problematiche emotive, col rischio di proporre ai pazienti “selvaggi nessi di causa effetto tra presunte fantasie inconsce rimosse e sintomi patologici del corpo”. E poi il concetto di adattamento, dove resta confuso chi determina il contesto al quale ci si deve adattare (e ci si dimentica che un eccesso di adattamento è patologico) e quello di resilienza intesa come resistenza allo stress. Molto meglio di questo ultimo termine di moda, concordano le psicoanaliste, è l’antica nozione di “forza dell’io”, che fa riferimento al lavoro che deve “compiere l’essere umano per negoziare dentro di sé la potenza primitiva degli istinti sessuali e aggressivi da una parte e i divieti che impone il cosiddetto super Io, cioè la coscienza morale, più il far fronte alle esigenze della realtà”. Si tratta insomma di contenere l’angoscia altrui e propria accettando in definitiva che la ricerca della felicità è impossibile e forse la felicità non è neanche un diritto. Come una vita senza stress, appunto.   (Pubblicato sul Fatto del 3 ottobre 2015).

Foto di Pedro Figueras

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