È stato lanciato, alla presenza del ministro dell’Ambiente Sergio Costa, di cui ormai da tempo apprezzo la comunicazione e l’operato, il progetto Forestami, nato su iniziativa di Comune e Città metropolitana di Milano sulla base di una ricerca del Politecnico di Milano e sostenuto da una serie di enti. Il progetto intende portare alla piantumazione di tre milioni di alberi e arbusti nell’area metropolitana milanese entro il 2030. Di questa iniziativa, a differenza di quanto il titolo sembra suggerire, non si può che dire gran bene.

Le cosiddette “foreste urbane“, che non sono i parchi, ma alberi che vivono nella città, facendo ombra e abbassando le temperature, sono davvero una delle migliori soluzioni che abbiamo sia per adattarsi ai cambiamenti climatici, i cui effetti sono più feroci nelle metropoli, che di mitigazione e contrasto agli stessi. Il problema è un altro. Anche se Costa sottolinea, giustamente, che con la revisione dei criteri ambientali minimi per gli acquisti verdi della Pubblica amministrazione finalmente ci sono regole chiare per un verde urbano di qualità e sostenibile, e che su questo saranno fondamentali le misure previste nel Green Deal e potenziate con il Recovery Plan, restano dei dubbi.

Perché l’unica città di cui da tempo si sta parlando di riforestazione in maniera seria è appunto Milano. E Milano non è l’Italia ma una città sola. E tutto il resto dell’Italia? Che cosa si stia facendo nelle città? Davvero si sta piantumando e come? Non vorrei riportare sempre l’esperienza di Roma ma la sensazione che noi cittadini abbiamo, perlomeno io, è che se aspettiamo che la città avrà finalmente le sue giungle e foreste urbane saremo già belli che morti.

Il Comune di Roma non ha soldi neanche per rimpiazzare gli alberi tagliati, che pure sarebbe un obbligo, figuriamoci per piantumare milioni di alberi. Che sarebbe invece quello che servirebbe, perché il problema di Roma, ad esempio, è quelli di una città dove ci sono parchi enormi che però non sono utili ad abbassare la temperatura perché, appunto, non vivono “nella città”.

La quale invece è fatta di immense aree centrali e periferiche con pochissimi alberi e dove le temperature estive sono roventi. D’altronde per decenni il verde è stato totalmente abbandonato, si sono rifatti i marciapiedi coprendo le radici degli alberi di cemento, si sono tagliati centinaia di alberi potenzialmente pericolosi perché mai curati senza appunto rimpiazzarli. L’incuria e l’anarchia sono state totali e passare dal nulla alle giungle urbane è una sfida ardua persino per gli amministratori sensibili al clima, figuriamoci per quelli che non sanno neanche di che si sta parlando.

Le proiezioni dicono che nel 2030 il 60 % della popolazione vivrà in città e la percentuale salirà al 70-80 nel 2050. Io però ho qualche dubbio. Ovviamente non parlo da statistica o demografa, ma mi chiedo se siano state prese in considerazione alcune possibili variabili. Ad esempio, appunto, l’aumento delle temperature che a un certo punto renderà, lo sta già facendo, invivibili le città nei mesi estivi, favorendo un esodo verso la campagna e la montagna.

Il coronavirus già ha reso evidente questo effetto, e molti si stanno attrezzando, quelli che possono, ovviamente, nel restare a vivere totalmente e/o parzialmente fuori città.Complice, ovviamente, la possibilità di lavorare in smartworking, che ha restituito finalmente la mobilità a una parte della popolazione e sta rendendo anche possibili forme di deurbanizzazone veramente benedette.

Ho avuto la fortuna di passare con i miei bambini l’intera pandemia in una casa di campagna con un pezzetto di giardino sull’Appennino, che per la verità non avevo mai usato molto. In un paese minuscolo, senza nulla, campagna aperta. Dopo tanti mesi posso dire che la qualità di vita delle metropoli, in confronto, è bassissima. Aria inquinata, caldo e umidità costanti, traffico continuo, costi elevatissimi di vita, rischio anche di morire, perché almeno la mia città è pericolosa per pedoni, ciclisti, scooteristi.

Che senso ha, se si svolge un lavoro potenzialmente svolgibile in rete, vivere così male, con bambini spesso costretti a una vita sedentaria e senza alcun contatto con la natura e quindi più vulnerabili anche a malattie, specialmente quelle respiratorie? Certo, il problema è il lavoro e con tutta evidenza solo le professioni più intellettuali sono svolgibili sul web. Ma comunque quella, secondo resta la direzione, ovvero la ripopolazione dei territorio e dei borghi abbandonati. Non alternativa alle foreste urbane, ma più facilmente realizzabile.

Lontano dalla città, la vita è drasticamente meno cara. Le case costano un decimo di quanto costano in città, a volte persino meno, puoi comprare un piccolo appartamento con un pezzetto di terra a ventimila euro, e solo questo è un criterio che da solo dovrebbe bastare a fare politiche che rendano possibile alle persone, soprattutto alle famiglie, di spostarsi. Con grande beneficio, specie dei minori. E lo stesso territorio se ne gioverebbe.

Forse, avremmo anche più figli, perché le condizioni di vita nelle metropoli sono quanto di più lontano da quelle necessarie per avere un figlio: un’aria e una temperatura decenti, un minimo di contatto con la natura, una scuola vicina e non a un’ora di macchina (oppure si, ma almeno in mezzo alle montagne), una vita semplificata su tutti i fronti, anche quello burocratico. Perché nei piccoli centri è tutto più semplice davvero. Già sento fioccare le critiche: la maggior parte delle persone non si può spostare, la campagna ormai è roba da ricchi e così via.

Non credo che lo sia, anzi lo sarà se appunto non si interverrà per favorire questo decentramento, che ci proteggerebbe, tra l’altro, anche da future pandemie. Basterebbe, ad esempio, potenziare il sistema di trasporti extraurbano, in modo che le località un’ora o due dalle città siano facilmente raggiungibili e quindi ci si possa vivere lavorando in città.

E poi, invece che attaccarlo e affondarlo, come stanno facendo politici come Sala e altri, potenziare al massimo lo smartworking, ovviamente estendendo la rete velocecapillarmente su tutto il territorio nazionale, scandalosamente mal coperto. Per me questo è il futuro vicino e possibile.

Le foreste urbane le vedo di difficile realizzazione – piantare un solo albero a Roma richiede una burocrazia pari a costruire un palazzo – vista anche l’indifferenze delle amministrazioni al tema e le casse vuote. No, non saranno i grattacieli verdi, appannaggi di pochi ricchi, quelli si, a salvarci. Ma riprendere in mano il territorio, la nostra ricchezza, e tornarci a vivere. Ricchi e poveri: che saranno, questi ultimi, molto meno poveri che nelle metropoli. Dove l’esistenza si fa sempre più miserabile, e i piani degli archistar sono roba, appunto, da piani alti.

Il fattoquotidiano luglio 2020

Foto di Little Visuals

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