“La donna madre e guerriera”: il primo abito di Chiara Ferragni nella serata finale del Festival – un bustino d’orato di resina abbinato a un peplo azzurro con un bambino d’oro attaccato al seno – dovrebbe ricordare, secondo chi l’ha ideato, la forza di chi non ha bisogno di imitare il maschile. E anche se l’azzurro è il colore sacrale della maternità, il vestito era anche simbolo, si legge sul suo profilo, del fatto che “non essere considerate solo apparati riproduttivi è la scelta per cui combattere ogni giorno”.
Anche il secondo, un abito blu con l’impronta oro sul corpo della donna, inneggiava proprio a quest’ultimo “come capolavoro massimo della creazione”. Il terzo, definito “l’abito dei diritti umani”, ha voluto, secondo chi l’ha ideato, esprimere l’importanza dei diritti riproduttivi e dell’aborto, con una collana dorata a forma di utero. Infine, un pantalone in velluto nero con un corsetto ricamato a forma di addominali: “La femminilità maschile” scrive su Instagram l’influencer.
Ma i look che l’imprenditrice ha mostrato durante il Festival hanno significato anche altro: il vestito nudo Dior con il quale Ferragni ha letto il suo monologo ha voluto esprimere “un corpo al naturale e liberato da quella vergogna”, ricordando addirittura Eva, come si legge sulla pagina sua Instagram della influencer. “Questo è il corpo di tutti. Chi è senza peccato scagli la prima pietra!”.
Ancora: il vestito con la stola con la scritta “Pensati libera” ha voluto essere una presa di posizione contro il patriarcato, così come il vestito, sempre Dior, con una gonna a gabbia – con la quale l’imprenditrice ha posato su Instagram insieme alla figlia vestita come lei – sarebbe un simbolo del patriarcato da cui occorre uscire. Infine, l’abito “contro l’odio”, quello con le frasi che gli hater ogni giorno le rivolgono cucite addosso, ha voluto simboleggiare quell’ “odio infruttifero contro il quale lottare ogni simbolo giorno”.
Sono bastati insomma solo gli abiti indossati dalla co-conduttrice a inondare i social, oltre che tv, di una overdose di concetti difficilmente smaltibili nel tempo di un Festival: odio, hater, aborto, diritti riproduttivi, patriarcato, libertà femminile, corpo, sessismo, maternità, non maternità. A tutto ciò si è aggiunto il monologo della prima serata, dove Chiara Ferragni ha parlato della difficoltà di credere nella propria forza, del non sentirsi mai abbastanza, invitando le donne a avere fiducia in loro stesse e a non farsi convincere di essere creature pensate (e lanciate) dagli uomini.
Infine, l’imprenditrice ha anche associato a se stessa il tema della violenza sulle donne, donando il suo compenso all’associazione D.i.Re, una delle principali associazioni che combattono contro la violenza sulle donne, e portando sul palco la presidente e alcune operatrici – vestite da uomini non è chiaro il perché – insieme a lei.
Perché non si può parlare di femminismo
Di tutto ciò si è parlato sul web a profusione in questi giorni, con i social network divisi tra critiche e approvazioni alla nota influencer. Ma il punto non è questo. Non ci interessa che il monologo sia stato infantile, lo era ma era anche autentico.Non ci interessa criticare chi ha fatto quello che voleva fare, raggiungendo magistralmente il suo obiettivo. La domanda è semplicemente una: possiamo dire che Chiara Ferragni sia espressione del femminismo? E la risposta è no.
Utilizzando le riflessioni dell’ultimo libro dell’economista Azzurra Rinaldi, Le signore non parlano di soldi (Fabbri Editori,16,50 €, 224 pagine), si può dire con una sintesi che il capitalismo è l’altra faccia del patriarcato. Il concetto sembra difficile ma è semplice: non può, chi del capitalismo è la massima espressione, chi utilizza qualsiasi contenuto come forma di pubblicità che si trasforma in denaro, persino gli stessi contenuti femministi che vuole portare sul palco e che cuce sui suoi abiti, essere un simbolo femminista.
Quella di Chiara Ferragni a Sanremo è stata una gigantesca opera di marketing, ben studiata a tavolino, dove i temi più cruciali legati all’esistenza femminile sono stati trasformati in pubblicità personale. Questo non vuol dire che lei non creda in ciò che ha detto, anche se dei temi che ha portato a Sanremo normalmente parla pochissimo, né che la sua personale scelta sia criticabile. Lo è invece chi pensa che possa essere un simbolo di emancipazione per chi non è emancipata, per chi è ingabbiata, per chi non ha i mezzi per essere libera: non lo è in nessun modo. E francamente appare un po’ discutibile che l’associazione D.i.Reabbia deciso di associare il suo nome a questo non simbolo di femminismo, anche se la donazione permetterà di aiutare tantissime donne.
Non solo. Quella di Ferragni è stata anche e soprattutto un’operazione commerciale che si è inserita perfettamente – ed è questo il secondo motivo per cui il femminismo non c’entra nulla – nello schema patriarcale di Sanremo. Conduttori e autori maschi e donne chiamate a presenziare ma ancor di più, come è evidente quest’anno, costrette a fare monologhi seriosi, patetici e impegnati mentre gli uomini erano liberi di ridere e scherzare.
Elena Stancanelli sulla Stampa ha scritto un pezzo magistrale, parlando di “donne chiamate in quota lagna”, Ferragni come Francini e di “anti stereotipo che conferma lo stereotipo”. Proprio così. Il tocco simil femminile che legittima ancor più lo schema maschile. La pennellata sui diritti nelle parole e abiti di Ferragni che conferma il suo schema totalmente e spietatamente capitalista.
I Ferragnez, la nuova sacra famiglia
Quello che Sanremo ha confermato, con la predominanza assoluta della coppia Ferragnez – che fosse monologo lacrimoso oppure la solita, prevedibile e francamente inutile trasgressione di Fedez – è una totale subalternità del Festival, ma direi della società stessa ai Ferragnez.
Mentre ancora imperversano le polemiche sull’attacco della destra a Fedez, a me ha colpito soprattutto un’altra cosa: perché la Rai, che con Fedez era andata a uno scontro durissimo, lo ha poi richiamato? Non conosco i retroscena, ma a me pare essere anche espressione di una fascinazione-subordinazione di mezza Italia a 2 influencer poveri di contenuti e che non hanno grandi capacità artistiche intellettuali, ma intorno a cui si è ormai formato ormai un coro unanime.
È come se il fascino della loro giovinezza, unito però alla quantità spropositata di soldi e a una vita di un consumismo sfrenato (basta guardare la serie su Netflix), producesse una fascinazione quasi sacrale. E non c’è dubbio, loro sono la sacra famiglia di oggi. In cui il centro di tutto è fare soldi, ma su questo sfondo si può mettere un po’ di politica, un po’ di trasgressione, un po’ di diritti, un po’ di sinistra a rendere tutto più accattivante.
È questo il nuovo modo di fare politica dei prossimi decenni, quello di Fedez che urla e strappa una foto del politico odiato, salvo tornare a fare i suoi affari nella vita normale? È questo, abiti Dior dai messaggi simil femministi, per poi tornare ai consueti post in cui si vende di tutto, il nuovo modo di portare avanti i diritti delle donne nei prossimi decenni? Non lo so ma non è rassicurante. Perché è un modello profondamente ambiguo. Il ricco rozzo e becero, alla Briatore, non confonde. Da lui è più facile prendere le distanze, i suoi valori sono identificabili.
Se i critici diventano haters
E qui veniamo a un ultimo punto. Non solo, infatti, Sanremo si è inchinata a questo modello, espressione di una società infantilizzata e soggiogata dal mito dei soldi, ma il palco del Festival ha anche portato avanti e approvato, sempre tramite Chiara Ferragni, un’operazione concettuale pericolosa. Quella che equipara haters e critica.
La confusione tra questi 2 concetti purtroppo regna sovrana, eppure le 2 cose sono perfettamente distinte e distinguibili. Ma quello che Ferragni e pure Fedez sono riusciti a celebrare è il fatto che la critica sia una forma di odio. Un’idea, appunto, che il festival ha approvato, come un distorto coro greco. Questa visione è stata purtroppo da tempo sposata anche dalla quasi totalità della stampa italiana, dove le voci critiche del modello ideologico-commerciale dei Ferragnez sono pochissime, a dimostrazione che il vero problema che abbiamo non sono certo i 2 influencer ma il conformismo spaventoso di chi, pur essendo giornalista e quindi avendo come dovere lo spirito critico, li celebra costantemente.
Ma c’è un altro elemento. Scorrendo i profili Instagram dei Ferragnez, si nota qualcosa di molto interessante. Dopo i primi commenti iniziali, cuoricini, approvazione etc, cominciano i post critici. Leggerli è istruttivo perché quasi mai si tratta di post segnati da odio, al massimo c’è qualche insulto, ma nella maggior part dei casi sono critiche argomentate e fondate al modello Ferragnez, che ne sottolineano le contraddizioni, le ipocrisie, ma anche, diciamo la “tossicità”.
Ci ritroviamo insomma nella surreale situazione in cui quei follower che vengo tacciati di odio sono gli unici a mantenere senso della realtà, mentre la stampa e i media l’hanno praticamente persa e sono proni a chi equipara hater e critiche. E non capiscono, loro come i due influencer, che chiedere che non ci siano critiche quando si fa un’esposizione sistematica, ossessiva, continua della propria esistenza è veramente contraddittorio. Ciò che viene chiesto è non solo adorare, ma farlo silenzio.
Un microcosmo autoreferenziale dove la realtà non c’è
In definitiva, dunque, Sanremo non solo è stato ancora una volta profondamente patriarcale, anche se le donne che hanno partecipato non lo hanno capito. Ma è stato anche il trionfo di una società infantilizzata, soggiogata al modello capitalista. Una società in cui ormai ragionare è divenuto espressione di odiare. Una società in cui sottrarsi alla vulgata dominante, rafforzata dai media, ti fa automaticamente sembrare un poraccio, un rosicone, uno che non è felice e che molto invidia.
Proprio in questi giorni ho letto un’intervista sulla felicità al maestro buddista Matthieu Ricard, autore del libro Una goccia di miele (Ubiliber, 20 euro, 434 pagine). Vi sono contenute riflessioni molto belle, quasi ipnotizzanti che sottolineano come la strada per essere felici sia l’empatia verso gli altri, il vivere nei panni degli altri, la cura del mondo. A Sanremo ha trionfato, invece, l’individualismo da un lato, anche nelle canzoni sempre ossessivamente centrate su temi privati, e l’indifferenza verso il mondo reale dall’altro. Quello fuori dal teatro, quello, a esempio, devastato proprio da quel capitalismo consumista celebrato da Amadeus.
Un universo totalmente autoreferenziale, a cui la visita di Sergio Mattarella, con il selfie con Ferragni prontamente pubblicato, ha anche dato una sorta di legittimità istituzionale a mio avviso non necessaria. Perché Sanremo è stato in questa edizione più che mai un microcosmo artistico e mediatico incapace di restare ancorato alla realtà e di portarla davvero sul palco.
L’altro giorno, mentre guardavo camminando per strada il profilo Instagram di Ferragni una voce mi ha chiamato, mi sono girata. Era una signora vestita dignitosamente, sui 50, che mi ha chiesto se avevo 2 euro per un panino. Non mi sono fermata, ero frastornata, immersa nella lettura digitale. Poi ho pensato, e non credo che sia un pensiero retorico, che tra quella donna e quegli abiti sul palco non c’era davvero alcun collegamento. E che più ci concentriamo sui primi, più diventiamo incapaci, noi tutti, di capire le richieste di aiuto di milioni di donne (e uomini) italiani reali, privi di ogni diritto e di qualsiasi possibilità di libertà.
Pubblicato su Lasvolta.it febbraio 2023
foto: Pixabay