Ma chi l’ha detto che per fare la “Pet Therapy” ci voglia per forza un biondo Golden retriever o un Labrador? Con il suo pelo scuro Dea, Rottweiler di 5 anni, ha varcato due anni fa il reparto di Pediatria dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa, per andare dritta al letto di un bimbo affetto da una grave lipodistrofia, che comporta anche convulsioni. Ebbene, la mamma e i medici hanno notato che durante e dopo gli incontri – due volte a settimana per alcuni mesi – il bambino non manifestava alcun segnale di convulsioni, oltre a mantenere i parametri vitali stabili. 

Insieme ad altri cani (Border collie, Jack Russel e in futuro forse anche un San Bernardo), Dea fa parte di Dobredog, una delle più grandi Accademia di Istruzione e Cultura Cinofila toscane, dove – tra formazione, convegni, progetti di ogni tipo con disabili e anziani  – si studia per diventare operatori di Pet Therapy. “Il rapporto affettivo con un animale”, spiega il presidente onorario Francesco Fabbri, “è in grado di instaurare un circolo virtuoso in cui gli effetti fisici interagiscono con la parte psico-emotiva e a loro volta le conseguenze a livello psicologico migliorano l’equilibrio della salute corporea”. Formulata così può sembrare una cosa un po’ generica e astratta. Ma se si vanno a vedere gli studi sui progetti di “pet therapy” riusciti – come quello della dott. Giulia Rovini pubblicato sul sito di Dobredog – l’immagine di questa pratica come una semplice forma di compagnia, che alcuni cuccioli fanno ad adulti e bambini giù di corda e malati, lascia spazio a quella di una vera e propria (co)terapia incisiva e persino impressionante. Bambini autistici che diventano meno aggressivi, più concentrati, empatici e motivati. Malati oncologici pediatrici che dormono meglio, si alimentano meglio, socializzano, parlano delle loro paure e bisogni, sono meno ansiosi, provano meno dolore. Pazienti oncologici adulti con maggiore ossigenazione durante la chemioterapia e che accettano più facilmente il proprio corpo, perché gli animali non giudicano. Schizofrenici più motivati e più capaci di provare piacere. Anziani che diminuiscono i farmaci, hanno un umore migliore e la cui percezione di solitudine diminuisce. “Abbiamo avuto anche”, racconta Fabbri,  “una ragazza anoressica che si alimentava esclusivamente in presenza del cane. Ha continuato a venire a trovarlo anche dopo, come fanno tanti altri una volta tornati a casa. Tra l’altro la Pet Therapy prevede che il bimbo che viene dimesso sia riaccompagnato a casa proprio dal cane”. Uno studio effettuato dalla dottoressa e anestesista  Lara Tadini Buoninsegni all’Ospedale di Careggi ha mostrato come nella manovra di svezzamento da ossigeno nei pazienti ricoverati in rianimazione la presenza del cane ha fatto sì che i parametri fossero al limite dell’inerte, come se cioè non stesse accadendo nulla.  “Questo”, conclude Fabbri,  “apre una profonda riflessione su come la presenza del cane vada a modificare i nostri set emotivi e su quanto questo porti benefici su aree che sono ancora davvero inesplorate”. 

Il fatto quotidiano settembre 2018

Foto Freestocks.org

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